Il fondamento della preghiera è vicino a quello della civiltà e si evolve parallelamente ad esso (§ 34/36)
La religione serve, quindi, a domare una natura che ci è ostile, e “ha lo stesso fine, insomma, della cultura o della civiltà, che è rivolta unicamente a fare della natura un ente che dal punto di vista teorico sia comprensibile, e da quello pratico sia condiscendente, comprensivo per i bisogni umani”; e tuttavia, sfortunatamente, “la civiltà non riesce mai a realizzare i desideri della religione; essa infatti non può togliere quei termini dell’uomo che hanno il loro fondamento nell’essenza di esso”: Feuerbach sostiene così che la religione riesce a risolvere (seppure in maniera fallace) quei problemi che risultano impenetrabili per il progresso della civiltà umana. La comprensione totalizzante della natura può essere quindi riscontrata solo nella religione, ma tutto è clamorosamente vano: “la natura non risponde ai lamenti e alle domande dell’uomo; lo respinge implacabilmente in lui stesso”. Oltretutto, nella religione feticistico-animistica, l’oggetto della venerazione è spesso un ente materiale privo di vita (come un ceppo d’albero o una pietra) che viene considerato autosufficiente e sussistente per sé.
Con il progredire dello stato di civiltà, l’uomo si trasforma in un ente morale e politico; ecco che, per superare le intime contraddizioni del feticismo, la divinità acquisisce l’attributo dello spiritualismo e soprattutto diviene il supremo reggitore dei valori etici e politici: Zeus quindi diventa il punitore degli empi e degli spergiuri, nonché il padre di tutti i re umani. Così “la forza della natura come tale, e il sentimento di dipendenza da essa, scompaiono di fronte al potere politico o morale”. L’uomo, a questo punto, è pronto a far dipendere tutto dalla sua stessa essenza, in quanto fonde i propri valori morali con gli attributi divini e viceversa: i sovrani mortali, ad esempio, sono lodati con prerogative non umane e innalzati a figli degli dèi.